sabato, settembre 23, 2006

Tre deal-killer dell'impresa in Italia

di Marco Baldassari

Ieri sera in Piazza Castello ho goduto di un evento che nella sostanza ha superato le Olimpiadi. La Notte dei Ricercatori ha portato in strada, vicino alla gente e ai bambini, il cuore pulsante della ricerca - in buona parte del Politecnico di Torino. Vederle in una fiera non avrebbe dato la stessa sferzata di ottimismo. Ho visto alcune realta' che possono dare a Torino un nuovo primato mondiale nello sviluppo di sistema e cambiare radicalmente la qualita' della vita.

Realta' eccellenti e un gap enorme col sistema-paese. Realizzazioni innovative e concrete, che funzionano, ma prototipi di ricerca confinati in un ambito in cui si e' lontani dal ritorno economico. Uno spazio templio delle idee e dell'ardire di spingersi oltre l'inviluppo. Ci sono ancora due visioni: quella "classica-statalista" del professore che si sente "preconfezionatore" di soluzioni che qualche privato o qualche ente pubblico - ma non lui - potrebbe "cogliere" e construirci sopra un progetto di impresa. Ho anche trovato il germe del team di "giovani visionari" - come furono per esempio la banda dei quattro che fece la SUN - con non solo un prototipo ardito, ma anche le idee chiare sul modo in cui fare e vendere un prodotto che non ha rivali nel mondo. Queste sono realta' dove i soldi e i "cervelli in fuga" dovrebbero sgomitare per avere accesso. Queste realta' ci sono e sono in mezzo a noi.

Le notizie di Telecom Italia oggi sui giornali ci ricordano brutalmente che fare impresa in Italia secondo il modello delle startup oggi e' impossibile. Non nel senso americano della startup, con creazione di valore da una ricerca di punta di cervelli italici. Mancano e mancheranno sempre i soldi e i mercati azionari, dove la popolazione partecipa all'impresa comprando azioni.

"Marco, non possiamo cambiare questa realta'", pragmaticamente mi ricorda un commerciale purosangue. Ha ragione, perche' si deve campare, ma l'impresa e' fatta con la pancia. Non puo' vincere se alle opportunita' di ritorno economico non si unisce la passione e la visione distruttiva. La mission di Bill Gates non era "voglio diventare l'uomo piu' ricco degli states" ma un piu' modesto "voglio che ogni persona della terra possa usare un computer."

L'assenza di questa forza travolgente, di pancia, quella mission che fa muovere le persone, e' il primo ostacolo. "Se vuoi colpire la luna, mira alle stelle." diceva un motto messo da McKinsey in un manuale europeo per imprenditori di startup europee. Non metterti nella posizione di partire limitato in partenza. Fallo in prima persona, con una impresa privata, con tutti i tuoi soldi, con tutta la tua passione nel prodotto che hai creato se sei convinto sia la soluzione al primo "pain" del tuo mercato target. Cosi' col tuo esempio convincerai un team dei migliori e chi ha dei soldi ti preghera' di accettarli e farli fruttare. (La SUN per inciso non ebbe bisogno di funding ed erano quattro studenti di Stanford)

Siamo in un sistema-paese che non incoraggia questo modo di agire. Siamo anzi chiaramente in un sistema che "deprime nelle fondamenta" questo modo di pensare, che in Italia e' francamente da alienati sognatori, che dovrebbero - come fanno tutti i ragionevoli - andarsene all'estero. E' giunto il momento di invertire questo pensiero, perche' questo e' il momento di fare un "turnaround" all'Italia come sistema-impresa. Per vari motivi, sono legato all'Italia e lottero' in ogni modo affinche' questo avvenga. Altrimenti andiamo tutti, ma proprio tutti a fondo, senza piu' via di uscita che richiedere l'annessione alla Cina.

La bufera di Telecom scoppiata sui giornali pone in tutta evidenza i tre "deal-killer" sistematici, quelli che impediscono alle aziende di ricevere soldi in modo sereno e sufficiente per rendere possibili i piani di business di startup che hanno la possibilita' di emergere e diventare leader sul mercato globale. Sono quei tre problemi che fanno stare i migliori fondi di investimento nei primi round di equity ben alla larga dall'Italia.

1. La "culturale assenza" del capitale di rischio disponibile per le imprese. Quello che ha creato il capitalismo moderno e' stata la "Societa' delle Indie" che in cambio di azioni ha distribuito il rischio di impresa in modo diffuso tra tutti coloro che erano disposti a rischiare il loro capitale nella speranza di ottenere un ritorno. Da quella mentalita' sono nati gli Stati Uniti d'America con la radicale dichiarazione di indipendenza del 1776 "We the people" facciamo lo stato-impresa collettiva. Radicale rivoluzione copernicana rispetto al concetto dello stato sovrano per volere di Dio o di un altro assoluto chiamato "volonta' popolare". Lo stato mezzo di convivenza, suddito dei suoi cittadini. Per estensione del concetto di impresa, che aggrega i mezzi e le capacita' di privati per fare insieme opere troppo rischiose o complesse per un singolo. Qui da noi impresa e' sinonimo di potere e i soldi devono stare al sicuro, non certo nel capitale di una azienda. Per conseguenza esiste l'anomalia - che forse qualcuno avra' bonta' di spiegarmi - di fondazioni senza scopo di lucro che comandano le piu' grosse banche italiane, che i soldi li hanno e li impiegano rigorosamente nel debito di aziende nane nei capitali. Nessuno mette i soldi nel capitale, ma tutti prestano o prendono a debito da entita' che di fatto governano le imprese e i mercati e sono di proprieta' di fondazioni che non si capisce bene di chi sono. Ma allora di chi sono le imprese italiane? Per trasparenza, nella costituzione dovremmo dire che "L'Italia e una Repubblica fondata sul debito" mentre sarebbe bello dire che "L'Italia e' una Repubblica fondata sulle imprese."

2. L'indistricabile invischiamento tra politica e affari, con una visione dirigistica-statalista dell'economia che rende la politica strumento di potere sull'economia, con leggi e governi fino alle municipalita' e gli atenei che piu' che regolare dirigono le imprese quando non ne entrano addirittura nelle operazioni (Iri e Alitalia). Questo rende "invischiata" la governance delle aziende, troppo soggette a poteri che dipendono da elezioni politiche piu' che dai capitali di chi possiede le azioni. A questi sistemi di governo, che invece di regolare dirigono, si aggiungono gli indirizzi e i poteri esercitati in modo oscuro dalle banche (socie di debito e non di capitale) con la ulteriore opacita' dovuta al fatto che non si sa di chi sono, ma che tramite relazioni di tipo personale hanno risonanze in ambiti politici. Questa visione del mondo, largamente condivisa e considerata "normale" da una larga fetta della popolazione, e' un deal killer che frena sul nascere qualsiasi possibilita' di fare impresa nei termini dell'economia di mercato propria degli Stati Uniti, che hanno inventato le startup e le stock option come mezzo di condivisione dei profitti aziondali. Al loro insorgere le stock option erano viste come un sistema "socialista" dai conservatori del tempo. Basterebbe rileggersi Modigliani, per ricordare quali limiti debba avere un governo nel regolare il sistema di libero mercato.

3. L'amministrazione della giustizia vista di nuovo come strumento di potere (quindi sottoposta ai movimenti delle teorie politiche) invece di essere considerata il fulcro dell'espressione dello stato regolatore, al servizio dei cittadini per assicurare il piu' equo rispetto dei valori e delle regole, in modo efficiente, sostanziale e tempestivo, cosi' da dimostrare l'utilita' dello stato. Lo stato disastroso della "enforcement" della giustizia - non per demeriti dei suoi singoli professionisti, quandanche faziosi, ma per causa della sua organizzazione non orientata a criteri di qualita' del servizio - esprime la radicale noncuranza che si ha per la cosa pubblica di maggiore peso. Che e' la certezza delle regole e del loro rispetto. Questo senso di giustizia e di forza e utilita' dello stato e' quello che trasmette e garantisce la fiducia nello stato, il senso del valore comune dello stato e quindi del pagare le tasse e in sintesi quella fiducia necessiaria per intraprendere sentendosi in un sistema libero, equo ed equilibrato, dove emerge il migliore.

Questi tre aspetti vengono letti e sviscerati nella vicenda Telecom dal bellissimo articolo di Oscar Giannino, pubblicato ieri su Libero, che riporto integralmente per la chiarezza delle sue parole, impossibili da sintetizzare, pur dense di un marcato risentimento verso il sistema.

Concordo inoltre con le ragioni di Davide Giacalone, che ritengono comunque un errore strategico la nazionalizzazione del core della rete. Per molti motivi e' invece l'ultimo miglio che andrebbe scorporato da Telecom e dato in gestione alle aziende municipalizzate o alle mutliutilities, che dovendo gia' portare tubature, non avrebbero problemi a farsi carico dei cablaggi fino negli appartamenti delle singole case. Piccola nota: avendo anche rievocato Raul Gardini, preciso che il mio ricordo della pagina di Repubblica del 1993 col teschio macabro di Forattini del Moro di Venezia e' vivo nella mia memoria - ero sul lago di Garda a fare surf - come e' vivo il mio sentire vicino col cuore a una precedente vittima di questo sistema mortifero.

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STRONCHETTATO PROVERA
di OSCAR GIANNINO

Ora che ha perso Telecom, i giudici (benedetti da Prodi) gli presentano il conto
(Libero 22 set 2006)

Caro direttore, premetto a te e ai lettori che questo ennesimo articolo sulla vicenda Telecom è scritto frenando a fatica l'incazzatura. Ci sono tre aspetti diversi della faccenda, e su tutti e tre i lettori di Libero come del mio giornale Finanza&Mercati non hanno dovuto aspettare il post 11 settembre di Telecom, per leggere ciò che andava scritto per tempo. Non saremmo a questo punto, cioè sul ciglio di un baratro, se i giornaloni vicini a grandi banche e al vertice di Confindustria avessero fatto il loro dovere sui tre capitoli, invece che scoprirli ora quando è tardi, in una paradossale gara dell'ultimo minuto, e solo perché la Procura di Milano ha fatto esplodere col consueto tempismo la bomba a tempo che da anni si teneva in serbo. Le tre questioni sono assai diverse, e se si intrecciano ora in un unico dossier è solo perché l'Italia è malamente abituata da molta della sua informazione a errori uno più grave dell'altro. Non osare mai fare analisi serie sui criteri finanziari e industriali che i grandi gruppi pongono alla base delle proprie scelte, almeno finché chi li guida siede nell'Olimpo intoccabile di chi "conta" davvero.

Da moltissimi mesi chi qui ci legge ha visto squadernata la vera priorità che da cinque anni a questa parte la Telecom di Tronchetti Provera ha considerato prioritaria, nelle proprie scelte finanziarie e industriali e nelle tre successive inversioni a U fatte a distanza di poco tempo, sul valore pazzesco pagato comprando all'origine, sull'opa Tim e oggi sul ritorno alla separazione tra fisso e mobile: la priorità è sempre stata l'estrazione di valore finalizzato a rendere via via meno impossibile il debito in capo a chi era socio di comando, non la creazione di valore nell'interesse di tutti i soci dell'azienda a partire da quelli di minoranza. Dirlo prima dell'11 settembre, tranne poche eccezioni condannava all'irrilevanza nel giornalismo "autorevole" del nostro Paese. Ieri e solo ieri, si è svegliato Eugenio Scalfari. Forse, se i grandi giornalisti economici badassero meno ai vincoli posti dai grandi inserzionisti pubblicitari e alle telefonate di banchieri e industriali soci del proprio giornale, e rischiassero di più la faccia criticando quando c'è da criticare - e in Telecom ce n'era a bizzeffe, purtroppo - lo stesso Tronchetti avrebbe evitato per tempo errori che oggi rischiano di risultargli fatali. L'essere al di sopra delle giuste critiche sconfina con l'impunità, ed è nell'impunità che si commettono gli errori peggiori.

Il secondo capitolo riguarda invece l'invasione selvaggia di campo compiuta quest'estate da Romano Prodi con maggior violenza quanto più avvertiva che il nodo si stringeva intorno al collo di Tronchetti. E anche su questo, i nostri lettori hanno potuto giorno per giorno capire che cosa ne pensiamo, di un premier che fa preparare da banchieri amici - a tutt'oggi sconosciuti - piani di riassestamento societario di grandi aziende private quotate, nonché di esproprio di uno dei suoi asset più importanti come la rete fissa, poi li fa consegnare all'azienda a poche ore da scelte decisive, poi ancora dice di non saperne niente, rifiuta di risponderne in Parlamento, e finisce per fare la figura del nano sul terreno dell'onore rispetto al leale Angelo Rovati. Un premier acchiappa-tutto, banche e aziende, piegato però dai suoi stessi sodali prima con le brutte a riferire alla Camera, quando l'aveva escluso. E obbligato ieri a dire di sì anche al Senato, dopo che l'opposizione vi ha avuto la meglio, e la prima reazione di Prodi era stata di sprezzante diniego, delegando l'incolpevole ministro Gentiloni. Un plauso ai due presidenti delle Camere, che pur essendo entrambi fieri militanti dell'Unione nulla hanno concesso al premier . Anche su questo secondo capitolo, l'informazione si divide per tifo politico, invece che per merito delle questioni. E per fortuna ci ha pensato in questo caso la stampa internazionale, ad aggiungere il suo cannoneggiamento contro l'incredibile ritorno di Prodi nelle vesti di presidente dell'Iri e di cordate di amici banchieri.

Ma sul terzo capitolo, quello giudiziario, è veramente dura frenare la lingua. Chi qui scrive è garantista sempre e comunque, a prescindere dalla logica amico-nemico che avvelena l'Italia. Ed era ben per questo, che ho affermato da moltissimo tempo che era e resta uno scandalo, che la procura di Milano si sia tenuta per due anni e mezzo in canna il proiettile dell'indagine che aveva compiuto sulle intercettazioni illecite in Telecom. Riservandosi prima di utilizzarlo come bastone minaccioso per ottenere dalla stessa Telecom una piena collaborazione sulla vicenda Abu Omar, intercettando a tutto spiano e ricostruendo i tabulati di agenti della Cia e del Sismi. Per poi, oggi, ottenuto ciò che si voleva e che presto vedremo formalizzato nella conclusione dell'indagine che intende tagliare la testa al Sismi, e affermare il principio che in Italia le operazioni "coperte" d'ora in poi non si fanno se non sotto la guida e l'assenso del Palazzo di giustizia milanese - far brillare la mina che da mesi e mesi Tronchetti Provera sapeva di avere sotto i piedi.

Puntualmente gli arresti per le intercettazioni illecite di Telecom avvengono ora che è aperto sul tavolo il nodo del riassetto e controllo societario, nel pieno delle polemiche politiche per le mani che Prodi ha cercato di calare sull'azienda, in modo da affermare autoritativamente ciò che dal 1992 è sempre stato il copione obbligato dei ribaltoni italiani: è la giustizia penale, a rivendicarne il timone, attraverso ordini di cattura e schiavettoni. Personalmente, ho scritto da mesi ciò che oggi ripeto: le intercettazioni di massa compiute in Telecom erano uno schifo gravissimo, e le difese aziendali visibilmente facevano acqua, come molte volte abbiamo documentato, ma la bomba a tempo della Procura non fa meno ribrezzo. Perché le violazioni della legge da parte dei privati sono ciò che la giustizia deve accertare e sanzionare, ma la decisione di farlo scegliendone discrezionalmente tempi e modi per ottenere le maggiori conseguenze sulle imprese stesse e sulla politica è il deragliamento di ogni idea di giustizia giusta.

Tronchetti Provera lo sapeva, che l'attacco più duro gli sarebbe venuto ora che i suoi errori industriali e finanziari venivano al pettine, quello più pericoloso ancora rispetto allo stesso Prodi che lavora per rilanciare la mano dello Stato e di banche amiche su Telecom, gli sarebbe stato portato dai pm che da un anno e mezzo girano attorno alle decisioni che hanno assunto solo ora.

E' per questo che si è dimesso dalla presidenza di Telecom: così che i pm non assumano né provvedimenti limitativi della sua libertà personale, poiché non essendo più presidente non può più inquinare le prove né reiterare eventuali reati, né interdittivi della sua qualifica di amministratore, com'è divenuta temibile abitudine dopo che la legge 231 rende i pm padroni della vita, dell'operatività e dei beni di ogni impresa nella quale chiunque - qualunque sia il suo grado - sia sospettato di aver compiuto un reato.

Così facendo, in questi giorni ha evitato che il titolo Telecom scendesse in Borsa sotto la soglia dei 2 euro: che è il limite oltre il quale c'è l'esplosione non più convenzionale come quella in atto, ma nucleare, poiché i covenant con le banche creditrici del gruppo sono firmati per un valore minimale dell'azione Telecom non inferiore a 1,8-1,9 euro, e se si va sotto saltano le garanzie e l'intera catena di controllo che fa capo alle scatole cinesi di Tronchetti va a farsi benedire perché nessuno le farebbe credito.

Per Tronchetti, il bilancio è amarissimo. Aver dovuto leggere - solo ieri, naturalmente, ad arresti avvenuti - che il direttore di Repubblica giudica la Telecom delle intercettazioni illecite di massa un vero e proprio "cancro annidato nella vita italiana", e per sovrammercato essersi dovuto sorbire dal fondatore Eugenio Scalfari la piena interdizione dal consorzio dei presentabili in società, addirittura con un accostamento personale a Raul Gardini, deve essere stato veramente duro per Tronchetti. A maggior ragione perché il maramaldeggiare è tanto più infamante quanto più è tardivo, e giunge addirittura a indicare un colpo di pistola suicida - ma suicida davvero? - come unico rimedio per levarsi di torno con onore. Sul ruolo di Guido Rossi, come difensore dei diritti sinora violati dei soci Telecom diversi da quelli di controllo, dell'azienda di fronte alle incursioni di Prodi e di fronte ai pm che vogliono ora influenzarne l'agenda e le scelte, dico solo una cosa. A lodarlo per i suoi mille meriti è le sue straordinarie qualità, sono buoni in tanti. Io sono bastian contrario. Proprio perché ho dato addosso alla Juventus moggiana, dico allora che il professor Rossi consulente di Olimpia con Murdoch non è che si sia comportato al di sopra di ogni sospetto d'interesse improprio, quando da commissario straordinario di Federcalcio ha appuntato la stelletta dello scudetto sul petto dell'Inter del cui vicepresidente Tronchetti era ed è avvocato. *Vicedirettore Finanza%Mercati