sabato, giugno 09, 2007

Manager, malati di troppo lavoro - Corriere della Sera

Manager, malati di troppo lavoro - Corriere della Sera

I risultati di un sondaggio Gidp sui direttori del personale. Le conclusioni? Valide per tutto il mondo dirigenziale


Hans Bauer è un nome di fantasia, perché il manager non gradisce farsi riconoscere, ma la vicenda è reale. Qualche anno fa Bauer arriva a Roma per assumere la presidenza della filiale italiana di una società tedesca. Il primo giorno di lavoro telefona alla moglie e, com'era abituato in Germania, le dice: «Sarò a casa alle 17 e 30». Intanto delega la segretaria a preparare l'agenda della giornata. L'assistente dopo un po' arriva per l'approvazione, lui legge e sobbalza sulla sedia: «Ma come, ha fissato la riunione con il management alle 18.30? A Stoccarda a quell'ora tutti i miei collaboratori erano già a casa da un pezzo». «Ma qui - risponde disorientata la segretaria - abbiamo sempre fatto così». Allora Bauer incarica un consulente di misurare il carico di lavoro dei manager a Roma e a Stoccarda. Risultato: in Italia è del 18% inferiore.
GLI ITALIANI AMANO FARE TARDI — In quell'azienda, dunque, l'orario di lavoro dei manager italiani è sensibilmente più lungo di quello dei colleghi esteri. Un caso isolato? Un'indagine di Gidp appena terminata ci dice che, in Italia, la situazione è generalizzata. Gidp è un network di 1.950 direttori risorse umane di aziende medio-grandi e il risultato di quell'indagine desta preoccupazioni: i capi del personale rischiano il cosiddetto workaholism, la dipendenza compulsiva dal lavoro. «Ma c'è anche una lettura positiva. - avverte il presidente di Gidp Paolo Citterio - . I direttori del personale sono manager con un forte spirito imprenditoriale, si identificano molto con l'azienda e hanno uno stretto rapporto con l'imprenditore. Sono un esempio da portare agli altri dirigenti». Ecco qualche numero. Il 58,7% degli intervistati «porta spesso il lavoro a casa» durante la settimana e vi dedica da 3 a 4 ore (il 13,8%), da 4 a 10 ore (il 23,9%), oltre le 10 ore (il 4,6%). Fuori orario d'ufficio, poi, il 77,1% fa o riceve al cellulare tra una e 10 telefonate di lavoro, mentre un altro 11,9% oscilla tra 11 e 20. Durante le ferie contrattuali ogni settimana il manager contatta od è contattato dal suo ufficio tra 1 e 5 volte (il 46,8%), tra 6 e 10 (il 30,3%) e tra 11 e 50 (il 19,3%). Solo il 4,6%, poi, resta in ufficio tra le 8 e le 8 ore e mezza, mentre il 51,4% staziona tra le 9 e le 10 ore e un consistente 40,4% rimane dalle 10 e mezza alle 12 ore. E ciò per ragioni varie: il 24,8% sta tanto in azienda perché si identifica con essa, il 13,8% perché ha «uno stretto rapporto con l'imprenditore» e il 19,3% per «abitudine aziendale dei direttori». L'iperpresenzialismo, però, crea problemi in famiglia. E' vero che il 65,1% dei coniugi dice asetticamente «è il tuo lavoro», ma tra questi il 15,6% «non comprende il motivo» di tanta dedizione, il 2,8% «dissente completamente», il 5,5% lo considera uno sfruttamento, l'1,8% vive «grossi problemi affettivi» e il 20,1% accusa di «pensare più all'impresa che alla famiglia». Drogati dal lavoro o costretti al lavoro? «E' una necessità - assicura Citterio - perché siamo sempre più business partner dell'imprenditore». Luigi Ambrogioni, direttore generale di Federmanager, sindacato dei dirigenti industriali, è meno ottimista. «Il workaholism - spiega - non è un problema solo dei direttori del personale. Da un'indagine condotta tra i nostri associati quella patologia emerge in tutte le aree. Non si capisce che restare più di 10 ore in ufficio non è il modo migliore per fare il manager: chi si chiude in azienda si taglia fuori dagli stimoli per capire lo stesso mondo aziendale. Tanto più che l'essere superpresenti spesso non è determinato da necessità di lavoro, ma da una sorta di rito che comporta il farsi vedere da capi e colleghi. Eppure con modelli organizzativi efficaci 8 ore d'ufficio bastano e avanzano».
EFFETTO IMMAGINE — Severino Salvemini è un esperto di organizzazione aziendale, materia che insegna all'università Bocconi. Secondo lui nelle risposte c'è anche un po' di transfer, per apparire come super executive e, quindi, super impegnati. «Tuttavia - chiarisce - questi "exetreme worker" sono la normalità negli ambienti fortemente competitivi. E il vero problema è dei 30-35enni, che non essendo ancora affermati non hanno spazi per reagire e così rischiano di annientare le relazioni parentali e affettive. Inoltre lavorare troppo non è produttivo, c'è bisogno di più riflessione per far bene il manager». «Tanto più che un'azienda non compra il tempo di un dirigente, ma il suo valore intellettuale. - rincara Domenico De Masi, docente di sociologia del lavoro alla Sapienza di Roma - . E chi si sente insicuro nel proprio ruolo, con il workaholism svela un complesso di inferiorità: se fosse convinto d'essere indispensabile metterebbe paletti all'utilizzo del suo tempo». E tutto ciò mentre negli Usa, ex patria del workaholism, rispetto a quarant'anni fa un cittadino statunitense ha guadagnato da 4 a 8 ore alla settimana da dedicare ad attività ricreative.
Enzo Riboni
08 giugno 2007